Damasco

Venti d’amore, venti di lotta, venti di libertà.

Ah, bei tempi quelli, quando s’ha vent’anni!

Anch’io, se non ricordo male, ho avuto vent’anni, una volta sola però, ed è successo tutto così velocemente che faccio fatica a ricordare come si stava a quell’età.

Delle donne non so nulla, mai capito un accidente, ma dei bipedi implumi di sesso maschile la memoria mi permette di buttare giù una grossolana cronologia, le posizioni di alcune pietre miliari della loro candida esistenza, facendo riferimento ovviamente alla mia generazione.

14 anni: primo motorino,

16 anni: primavera 125,

18 anni: patente e scassone di terza mano,

20 anni: fine della naja e inizio dei giochi.

Dai vent’anni in su il ragazzone si scatena al pari di un’orca che, da un acquario, è riuscita finalmente a guadagnare il mare. Se lavora, si trova già con qualche soldo in tasca, se invece studia, l’università gli passa tutto il materiale necessario per trastullarsi. Fuori da ogni controllo genitoriale e istituzionale, perennemente in calore e dotato di forze adeguate alla bisogna, può sbizzarrirsi a suo piacimento, scegliendo con entusiasmo e discreta approssimazione quali catastrofici errori compiere. Come tutti i miei coetanei, io facevo di tutto per sentirmi speciale ma, a conti fatti, si trattava in buona sostanza di un carnevale collettivo dove l’originalità stava solo nella maschera indossata per l’occasione.

Ricordo che la musica mi aveva preso, da tempo. No, non sono un musicista, non lo sono mai stato, per incapacità e accidia, o forse solamente per fortuna. Ero uno dei tanti che misurava il tempo sulle date dei concerti rock e sulle uscite degli LP, che sopportava scomode trasferte ferroviarie e attese calcinanti dentro piazzali affollati per immaginare di vedere all’opera le agili dita del virtuoso più o meno autentico.

Non mi bastava, non bastava mai.

A casa, nella camera che dividevo con il mio più diligente fratello, alcune sfortunate mensole erano condannate a sopportare il peso di centinaia di 33giri, una collezione che non conosceva il termine “abbastanza”. Quando il momento lo richiedeva, e cioè quasi sempre, uno di questi personali penati di forma circolare veniva posto con delicatezza sul piatto delle offerte e, grazie a dei congegni preziosi per me e misteriosi per i più, lanciava nell’aere il suo vaticinante e criptico messaggio musicale.

Non mi bastava, e quando mai mi sarebbe bastato?

Inappagato dal mio stato di ricettore passivo, mi convinsi che era ora di passare all’azione, inventandomi spacciatore della mia droga musicale, immaginando per me un ruolo profetico e inderogabile. Cominciai così a trafficare con altoparlanti, transistor, trasformatori toroidali, bobine e testine. Nelle mie mani si davano il cambio il tester con il trapano, il pennello con il saldatore, la calcolatrice colla lana di vetro. Umide cantine perennemente odorose di muffa e piovose soffitte scomodamente accessibili erano di volta in volta gli spazi nei quali esternavo materialmente la mia missione audiofila. Quando non ero impegolato con improbabili teoremi di falegnameria elettronica, passavo le mie ore davanti a un mixer di una radio privata, servendo con zelo e dedizione la causa della libertà di trasmettere nell’etere, ragionevolmente convinto di fare un favore all’umanità.

Tre cose avevo allora: la soffitta, il lavoro alla radio, e la ragazza. Tutto il resto non esisteva.

Quel sottotetto in affitto era una cosa veramente speciale. Tre vani: in uno, col soffitto spiovente, tenevo le mie carabattole, una roba che non si capiva se era un Suq molto caotico oppure una ragnatela tessuta da un gigantesco aracnide alieno ubriaco. Nell’altra stanza ci stavano un tavolo, una quaterna di sedie spaiate e una vecchia cucina economica a legna, in muratura, il progenitore neanderthaliano di quelle belle cucine in maiolica che fanno bella mostra di sé, fingendo di essere rustiche, nelle fiere di arredocasa. Per raggiungere il terzo vano si saliva un’erta scala a chiocciola che sfociava in una stanzetta ottagonale, con sette finestre e il tetto a cupola, blu cielo. L’edificio vantava già qualche secolo di vita e, un po’ per gioco e un po’ per suggestione, fantasticavo sulle vite di coloro che da quelle finestre avevano visto passare le armate napoleoniche, il lento profilarsi delle vele provenienti da tutti gli orizzonti del mondo, oppure li immaginavo dabbasso, d’inverno, stringersi al calore quasi puntiforme di quella stufa a legna, e scrutare una pentola di coccio posta a bollire placidamente in un angolo della piastra rovente, aspettando, pane nero alla mano, il momento di scottarsi finalmente la lingua con la minestra, patate e fagioli, con un soffritto leggero, niente prosciutto per oggi.

Anch’io ogni tanto accendevo quella piccola cucina a legna, il sabato sera, con gli sfridi di abete e qualche rottame di vecchi serramenti; su un tavolino stavano una bottiglia di prosecco ben temperato, due calici e qualche dolcetto; dalla stanza degli ammennicoli un registratore a bobine srotolava la sua morbida colonna sonora; io e la mia ragazza non amavamo le discoteche, preferivamo restare da soli, scaldandoci al fuoco, quello grande, non quello della stufa. Non era niente, non si poteva neppure definire bohemien, erano solo tre stanzette basse e una coppia di sognatori.

Dall’altra parte della porta c’era una specie di grande atrio semicircolare, semibuio, largo una decina di metri, dove si aprivano altre due porte simili alla mia, più quella del gabinetto comune. Addossata alla colonna centrale di quell’anfiteatro da topi era installata una specie di fontana da giardino, una placca fusa dalla quale fuoriusciva, per un paio di centimetri, un rugginoso tubo di ferro alla cui estremità era avvitato uno spartano rubinetto di ottone opaco a volantino. Mezzo metro sotto la bocca del rubinetto era piantata la vasca di raccolta, un mezzo bacile di ghisa nera con un foro sul fondo, niente tappo o sifone: scarico diretto. Quattro tondini in croce permettevano di poggiarvi con relativa stabilità un secchio o un mastello. Quella era l’unica acqua di quella soffitta, per cucinare, per bere, per lavare, per il cesso, per annegarsi volendo.

Potrebbe anche sembrare pittoresco se non fosse per il fatto che, oltre a me che più che altro ci passavo il tempo, in quel sottotetto ci vivevano stabilmente altre due famiglie, gente comune, di quella che passa inosservata, che non fa notizia, e forse neppure statistica.

Nella soffitta a sinistra abitava la famiglia di un imbianchino, il quale, paradossale gioco di parole, imbiancava in nero. Niente fatture, contributi, assicurazione; lavorava per quattro soldi: pochi, maledetti, ma subito. Una volta soltanto mi riuscii di buttare un’occhiata dove viveva e scorsi che, per realizzare una parvenza di intimità e un simulacro di stanze, aveva tirato dei cavi tra due pareti opposte e c’aveva appeso un grande foglio di plastica, uno di quelli che abitualmente usava stendere sul pavimento per non sporcarlo durante lo svolgimento delle sue cosmetiche mansioni.

L’altro “appartamento” era occupato da una coppia interessantissima. Lei era piccola e cicciotella, capelli corvini e cadenza che tradivano le sue origini sicule, sempre pronta a un sorriso e una cantatina. Adorava suo marito, un tipo segaligno, taciturno, all’apparenza più vecchio di lei. Lo chiamava “il mio artista”, ma senza boria né ironia, semplicemente come se fosse un fatto evidente, lapalissiano, naturale. Lui era un pittore, ma non ebbi mai l’opportunità di valutare la sua opera. A detta di lei i quadri del suo uomo erano meravigliosi, purtroppo non abbastanza meravigliosi ne dedussi io, ma mi astenni dal palesare le mie conclusioni pratiche, e d’altronde chi ero io per giudicare un’opera d’arte?

Ogni tanto poteva capitare che ci incrociassimo alla fontana e che ci scambiassimo al volo qualche battuta gentile, io, un baldo giovane di ventitre anni, e lei, una sessantenne dotata di una vitalità invincibile. Sembrava felice.

Come spesso succede, le svolte della vita sono generate da un errore, e quella volta l’errore fu mio.

Avevo deciso di dare una bella ripassata ai pavimenti e agli infissi di quella mia tana, provvedendomi di detersivi adeguati e delle attrezzature del caso, tra le quali dei guanti di gomma. Gli avevo scelti proprio bene, felpati internamente, antiscivolo, gialli,  resistenti, peccato che, per comprensibile inesperienza, avessi clamorosamente sbagliato taglia: erano troppo piccoli. Quasi sollevato dall’eventualità di dover rimandare quel faticoso programma sanitario, mi stavo interrogando sulla sorte futura di quei guanti, quando una voce conosciuta mi tolse dall’imbarazzo. Socchiusi l’uscio e scorsi la mia arzilla vicina che stava provvedendo al suo rifornimento idrico.

Detto fatto, rimisi i guanti nella loro busta di cellophane, e con quelli nel pugno mi diressi verso il nostro comune acquedotto. Ero comunque un po’ imbarazzato, poco abituato a dar via la roba usata, anche se era praticamente nuova. Le dissi che se non le dispiaceva, che non si offendesse, io avevo quei guanti, erano nuovi, erano piccoli per me, insomma altrimenti li buttavo, e le porsi la busta con i guanti.

Lei, senza dire parola, li prese, li sfilò con cura dalla confezione, uno alla volta, li indossò e se li guardò come le stavano: perfetti. Fu a quel punto che mi arrivò, inaspettato e inimmaginabile, lo schiaffo. Non fu un gesto fisico, tutt’altro. Non la finiva di rimirarsi le mani guantate, le chiudeva e le riapriva, piegava le dita quasi le notasse per la prima volta. Poi, sempre senza parlare, lei prese le mie mani tra le sue e se le portò un attimo alle labbra. In quel momento, nonostante la luce opaca e sfuggente, colsi l’immagine dei suoi occhi lucidi. Bisbigliò un paio di grazie e se tornò al suo nido. Presso la fontana rimasero i dimenticati secchi dell’acqua, e me, rintronato e sorpreso come un pugile che ha appena subito un micidiale uppercut inaspettato. In quei pochi secondi avevo avuto la visione di una vita grama, sofferta giorno per giorno, gravida di illusioni e di delusioni, dispensatrice di fatica e di mani callose. Con tutta probabilità quei modestissimi guanti di gomma erano i primi che aveva occasione di indossare, in sessant’anni di vita. Forse neppure li usò mai, per paura di rovinarli.

Tornai dentro dove mi aspettavano fedelmente i miei strumenti, la mia musica, il mio mondo di allora e, considerando a lungo la mia posizione, cercai di dare un peso, una posizione, uno spessore alle esperienze passate e alle belle speranze per il futuro. Poi, volgendo lo sguardo verso la porta, chiusa ma ormai incapace di tenere fuori la realtà, mi sentii schiacciato dalla responsabilità e valutai l’eventualità di condannare la persona che amavo a una vita di privazioni e di perenne purgatorio.

Qualche mese dopo rinunciai a quella romantica soffitta, lasciai il mio posto radiofonico a qualcuno più entusiasta di me, trovai un impiego adeguato alle mie competenze, e iniziai l’impervia salita per raggiungere il traguardo di una casa “nostra”, abbandonando, senza smettere mai di amarli, i miei dischi e tutti gli apparecchi che ne erano il corollario, cedendoli a chi forse ne era più degno. Non me ne sono mai pentito.

Qualcuno potrà obiettare che la mia scelta è stata una rinuncia, un tradimento, un desiderio borghese di conformarsi.

No.

A distanza di anni posso anche permettermi di fare qualche operazione matematica elementare, sommare ciò che ho guadagnato e sottrarre ciò che ho perduto. Per incredibile che possa sembrare, non ho perso niente.

Amo ancora la musica, forse più di prima e in maniera più genuina. Non solo chitarre roventi ma anche legni stagionati, niente più idoli e stereotipi, e basta con tutti quegli intermediari strabordanti di Led e di Watt. Solamente lei in tutti i suoi aspetti, classici o scioccanti, comunque mai commerciali, convenzionali, ordinari.

Stop anche al conformismo di apparire anticonformisti, sempre e comunque: stucchevole. Ho rinunciato alla forma per la sostanza, all’apparire per l’essere; invece di volare lontanissimo per poi tornare al punto di partenza come un boomerang, preferisco fare un passo, uno solo, ma che sia risoluto e irrevocabile.

Ho rinunciato a qualcosa? Sì, ho rinunciato a restare fermo nella mia crisalide da sogno e mi sono arreso alla vita. E’ stata una decisione, sofferta ma essenziale, pari alla muta che inderogabilmente debbono compiere i serpenti e altri esseri viventi quando crescono. C’est la vie, mais je l’aime…

Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l’ho abbandonato. (S. Paolo – Prima Lettera ai Corinzi)

9 risposte a "Damasco"

  1. Le favole finisco quasi sempre e vissero felici e contenti, invece la realtà di ogni vita si sa non è una favola ,si combatte ,si sbaglia si ricomincia, ma poter dire convinti ho vissuto così come meglio potevo anche cambiando ragionamemti e non ho perso niente, be è un bel traguardo,essere consapevoli di essere e non di poter essere chissà che sogno nel cassetto ,può dare giustizia a una vita vissuta, si può anche dire onestamente e serenamente di essere compiaciuti così,forse sta qui la differenza di chi ha molto di più e non è mai contento.
    La realtà così batte la favola 😉
    Bello spaccato di vita e grazie per la condivizione è un bel conoscerci in amicizia 🙂

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  2. quando si fanno delle scelte nella vita – io ho imparato – quello che conta sempre è averle fatte con la convinzione di essere nel giusto, di corrispondere profondamente alla propria natura. Sono milioni le strade che possiamo decidere di intraprendere per raggiungere una meta. Non è detto che la raggiungeremo, non è detto che non sbaglieremo strada, che ci fermeremo intorno ad un arbusto, che non la faremo zompettando o cantando. L’importante è farla, rispondendo sempre ai richiami della nostra testa e del nostro cuore. Mai a quelli del così si deve. Sempre corrispondendo alla propria realtà. Si giunge sempre alla fine dove si voleva. Mi pare tu l’abbia ben fatto. E per quanto riguarda la musica, Stelio, quella, lei, è il motore del mondo. Non se ne va mai…

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    • Certe scelte si fanno con “l’irragionevole speranza” di essere nel giusto. Non si capisce il presente, il futuro è ignoto, non conosciamo noi stessi e nè tantomento cosa diventeremo. Se non è fede questa…
      Può capitare, ogni tanto, di ricevere dei segnali, dalla vita, dal mondo, da noi stessi; il segreto allora è fare come gli animali (ciò che siamo): seguirli per istinto, ovvero, come dici tu, rispondendo ai richiami della testa e del cuore. Raramente loro ci tradiscono, e se lo fanno è per il nostro bene.
      Hai ragione anche sulla musica, lei non se ne va mai, come i segni della varicella, una macchia di resina, l’odore di cucina, un labrador, la vernice a olio. E’ vero, un dì fui contagiato dalla musica, e, anche se poi scappai dal manicomio, non ho la minima speranza di guarire. Per fortuna.

      🙂

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