VAFFANCULO! Grazie, troppo buono.

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Il povero Beppe Grillo, con i suoi vaffanculo, mi fa quasi tenerezza.
C’è chi lo trova volgare, irriverente, offensivo, e sicuramente costoro hanno, almeno in parte, ragione. In parte, ho precisato, la parte cioè che riguarda un approccio irrispettoso verso alcune istituzioni e i canoni che hanno fino a oggi regolato le relazioni tra i poteri dello stato.
“Irrispettoso”, cito dal mio inseparabile Devoto – Oli, “agg. – che manca del dovuto riguardo o rispetto”, e sembra proprio tagliato su misura di Grillo. Ma, c’è un “ma”, ovvero quel “dovuto” inserito nella definizione. Domanda: lo dobbiamo veramente tanto rispetto?
Porto un esempio banale. Mettiamo il caso che io chiami un idraulico per allacciare un rubinetto in cucina; una volta che l’idraulico ha finito il lavoro il suo compenso è, da parte mia, “dovuto”. Ma se invece egli si è dimostrato  uno scalzacane e, non solo non mi ha collegato il rubinetto, ma mi ha procurato pure un allagamento in cucina, il suo compenso è tutt’altro che “dovuto”, perciò, oltre alla denuncia per danni, come minimo egli si deve aspettare il suggerimento di cambiare mestiere e l’avvertimento di non farsi vedere mai più.
Ditemi voi ora per quale motivo noi dovremmo portare rispetto verso persone o istituzioni che hanno dimostrato in maniera più che patente la loro inettitudine o, in alternativa, la disonestà più sfacciata.
È vero, a volte Beppe Grillo esagera, nel merito e nel metodo, ma quel suo “vaffanculo”, un vero e proprio marchio di fabbrica, non dovrebbe scandalizzare più di tanto, anche perché troppo spesso il preteso e manierato rispetto è, a esser buoni, il frutto di un riflesso pavloviano, oppure, a essere realisti, un ipocrita mercato di favori, un reciproco e autoreferenziale mantenimento dello status quo.
Ma non è delle ragioni e dei torti di Grillo che intendo trattare, bensì dello scandalo, sincero o farisaico, scatenato da quel termine che più che un insulto è ormai diventato un intercalare: vaffanculo.
Ma veramente vi crea imbarazzo e vi disturba quella espressione?
Perché se è così, allora non riesco a capire come facciate a fronteggiare l’inondazione biblica di termini scurrili e offensivi, i quali da qualche tempo hanno invaso la comunicazione scritta e parlata, e al confronto dei quali quel vaffanculo è un’espressione da educande pudibonde.
Guardatevi un po’ attorno, siete circondati da cazzi, di tutti i tipi e per tutti gli usi.
Si va dal “cazzo” puro e semplice che, esattamente come il nero, è sempre di moda e sta bene con tutto, insulto, valutazione, sorpresa, sottolineatura, dubbio, interiezione, quantità, sinonimo universale, orientamento, eccetera. È perlomeno curioso il pudore che sorge quando ci si trova a nominare il cazzo nella sua accezione naturale, un’inibizione capace di dare alla luce tutta una serie di termini ridicoli: affare, coso, arnese, pipino, organo, bigolo, pennello, e molti altri contorsionismi per evitare di pronunciare “quella” parola.
Il cazzo poi è un termine generoso e compagnone, si presta volentieri a manipolazioni lessicali (ma anche fisiche!). L’accrescitivo “cazzone” non si attaglia a un tipo particolarmente dotato, direi anzi che la sua popolarità sia abbastanza bassa. Il suono vagamente spagnoleggiante di “cazzillo” si può udire quando quando si monta qualcosa (qualcosa, non qualcuna!). La variante “cazziatone” non è dimensionale, bensì sociale, anche se chi lo subisce ne patisce le pene (oops) come se si fosse trattato di una brutale sottomissione fisica, generalmente operata da un personaggio grandemente dotato, ovvero “cazzuto”.
I cazzi poi, sono come i gatti, vanno con chi gli pare. A seconda del caso possono essere miei, tuoi, di qualcun altro, possono essere dati in affidamento o rifilati, arrivano a tradimento oppure come previsto.
La sua massima versatilità si manifesta quando viene utilizzato in associazione con altre parole, così possiamo ottenere una nuova maschera carnevalesca, la “faccia di cazzo”, oppure descrivere un trapianto mal riuscito, una “testa di cazzo”.
Va pur detto che abbiamo a che fare con un vero stacanovista, uno che si da da fare in tutti i campi, che non si risparmia mai, e infatti non passa giorno senza che ci capiti di incrociare qualche “cazzata”, e che, per simpatia o spirito di emulazione, venga la tentazione di “incazzarsi”. Attenzione a non eccedere però, in quanto troppe incazzature potrebbero portare alla reazione opposta, ovvero quella di “scazzarsi”.
Non si pensi che il cazzo si presti solamente a questi usi approssimativi, tutt’altro. Un valido strumento di misura, purtroppo non ancora riconosciuto dalle norme UNI e, per comprensibili difficoltà tecniche, privo del marchio CE, è il polivalente “cazzo di cane”, molto utilizzato nelle controversie contrattuali e nelle valutazioni d’opera.
Curiosa è poi la negazione tautologica del suo uso. Capita spesso che per sottolineare un’assenza, per esempio dopo che qualcuno (non qualcuna!) ha dato buca a un appuntamento, venga pronunciata questa frase accusatoria: “col cazzo che sei venuto!”. Ora, lor signori mi vorranno spiegare con cosa si dovrebbe venire se non col cazzo, quindi la loro frase vorrebbe essere la sottolineatura negativa di ciò che è acclarato da milioni di anni, una anti-tautologia.
Altrettanto interessante è poi il comportamento degli esseri umani in caso di scarsa visibilità. Potrebbe trattarsi di un effetto dell’evoluzione, in quanto l’illuminazione artificiale, prima col fuoco, e poi mediante sistemi via via sempre più evoluti ed efficienti, ha fatto recedere certe caratteristiche genetiche che erano indispensabili nelle buie notti primordiali, quando, al pari dei pesci abissali, il nostro corpo, ovviamente peloso ma altrettanto ovviamente nudo in alcune parti, emanava una bioluminescenza, altrimenti non si spiegherebbe l’atavica reazione di disappunto quando “non si vede un cazzo”.
Soprassediamo pure su chi non sta molto attento al suo regime alimentare, e nulla vogliamo sapere del menù di un “cagacazzi”, perché in questo caso l’eccesso di dettagli potrebbe essere adatto solo a chi ha lo stomaco forte.
E dato che la nostra penisola si vanta delle sua storia, trovo più che meritoria la conservazione e la diffusione di ciò che ci rende noti in tutto il mondo, ovvero la rivalutazione delle nostre tradizioni popolari che trovano il loro vettore ideale nel dialetto, dal quale i media hanno estrapolato alcuni termini ormai entrati nell’uso comune, minchia, belin, pirla, bischero, i più noti.
Di tutta questa messe di espressioni, senza le quali probabilmente non sapremmo comporre una frase sensata, noi dovremmo essere grati, e se voi non intendete o non ve la sentite di riconoscere questo debito che abbiamo con lui, lo farò io anche per voi, perciò: “grazie al cazzo!”.
Ora, alzi la mano chi non ha mai udito una qualsiasi di queste espressioni.
Mmmm… non vedo nessuna mano alzata.
Cosa fate quando giunge alle vostre orecchie il termine “cazzo” in una qualsiasi delle sue versioni? Ve ne andate manifestando sdegno? Scrivete al direttore del vostro giornale preferito? Apostrofate vivacemente chi ha pronunciato la fatal parola? Lo prendete a schiaffi? Gli sciacquate la bocca col sapone?
Come dite? Niente?
A questo punto potrei supporre che siate pronti a sopportare stoicamente anche l’incontro verbale con quanto di più naturale e (sperabilmente) quotidiano esiste nella nostra vita: la merda.
Concedetemi una premessa. Mandare a cagare qualcuno non è un’offesa, è invece un augurio affettuoso. Il suo significato potrebbe tradursi pressapoco così: spero vivamente che tu, nell’arco della giornata, goda di una o due sedute soddisfacenti sulla tazza del cesso, meglio se di prima mattina, in modo che tu possa rallegrarti di una vita sana e libera da fastidiose pesantezze, evitando la pena di dolorosissime evacuazioni occasionali, augurate e temute allo stesso tempo, e spero che tu non sia costretto a sacrificare parte dei tuoi averi per destinarli a lassativi, supposte alla glicerina, clisteri, intrugli spacciati dalle multinazionali, fibre di piante esotiche, e santoni mediatici della stipsi. Punto.
Lo stesso discorso vale, con un altro significato ovviamente, per quel “tanta merda” che è così comune nel mondo dello spettacolo.
Però la “merda” c’è, dappertutto.
La troviamo al naturale, così come viene, espressione sincera di un vivace disappunto, anche se è disponibile in altri formati, sempre in base alle nostre esigenze.
C’è il formato standard, quello che va per la maggiore, utilizzato per certificare una valutazione particolarmente negativa delle qualità umane e/o professionali di una persona: lo “stronzo” e, per parità di genere, la “stronza”.
Chi invece preferisce distinguersi e sceglie un formato personalizzato, generalmente si orienta verso il “pezzo di merda”.
Quando questa tipologia di persone che non ci vanno a genio si raggruppano, potremmo trovarci in difficoltà. Infatti è assai difficile distinguerli uno dall’altro, e chi non ha dimestichezza con la Scala di Bristol potrebbe facilmente fare confusione. In questo caso ci viene in soccorso la psicologia della Gestalt, nella quale si afferma che il tutto è diverso dalla somma delle singole parti, e perciò si usa definire quel gruppo omogeneo come un “mucchio di letame”.
A coloro che, sentendosi gli unici puri e cristallini, indulgono spesso in questa valutazione globale, consiglierei di non sopravvalutare la loro integrità morale, la quale, parimenti a ogni altro eccesso, potrebbe comportare delle controindicazioni, giacché, come diceva bene il Faber, “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”.
Torniamo a bomba.
Come il “cazzo”, anche lo “stronzo” sembra in preda a un’inarrestabile attivismo. Infatti sono più che certo del fatto che vi sia capitato di imbattervi in qualche “stronzata”, le cui dimensioni, curiosità scientifica che sta mettendo a dura prova i fisici di tutto il mondo, sono inversamente proporzionali a quelle del cervello del loro autore.
A quanto pare, alcuni dotti studi di una nota università inglese hanno certificato che la “merda” è il materiale da costruzione più usato, avendo ormai surclassato l’acciaio e il cemento. Si sta aspettando con trepidazione la smentita da parte dei laboratori di analisi, in quanto pare che alcuni alimenti poco graditi al consumatore abbiano un “gusto di merda”; si sa, vox populi vox dei.
Sappiamo inoltre che, grazie a una Corte di Cassazione, l’Italia non è un “paese di merda”, e che affermarlo è un reato penale (o reato peanale?). Quindi tutto va ben Madama la Marchesa? Direi proprio di no.
Secondo uno studio comparato di qualche tempo fa, è stato calcolato che con tutte le deiezioni prodotte in un anno dalla popolazione italiana si potrebbe costruire, per tutta la lunghezza delle nostre coste, un muro di feci alto un metro. La maggior parte di queste finisce ovviamente nel Mare Nostrum, anno dopo anno, e quindi, essendo l’Italia una penisola, anche se il nostro non è un “paese di merda” (magari!) siamo comunque “nella merda” (purtroppo!).
Vi vedo sconvolti. Come mai?
Allora, oltre che i riferimenti sessuali, vi danno fastidio anche i discorsi scatologici? Strano. Eppure io li sento ogni giorno, dappertutto, e non mi pare che la gente attorno a me si scomponga più di tanto, anzi qualche volta anche ci ridono sopra di gusto. Sono forse malati?
Forse voi siete giunti alla conclusione che io mi stia divertendo a scioccarvi un po’, giusto per vedere le vostre reazioni, come un bambino che per dispetto dice “cacca”, ma non è così.
Ciò che avete letto finora è semplicemente la fotografia di un malcostume linguistico che nemmeno un capillare indottrinamento culturale o la più spietata delle dittature riuscirebbe a estirpare.
E se pensate che quelle che avete letto sono parolacce, vi sbagliate, in quanto io vi ho trascinato fin qui per prepararvi a una vera parolaccia, una di quelle più pericolose, perché dettata dall’ignoranza (dal verbo ignorare).
No, non sto pensando a quei ridicoli “attimini” che nulla significano, giacché l’attimo è, come il punto geometrico, unidimensionale, e non può essere spezzettato o ridotto. I puntini sono roba da tedeschi, da mettere sulle u, i mezzi punti sono roba da ricamo, lavori da casalinghe e carcerati (difficile trovare la differenza…). Così gli attimini sono familiari alle segretarie d’azienda con le unghie laccate, agli addetti alla vendita che non sono sicuri di sé, a chi è laureato e parla quattro lingue ma non l’italiano (al massimo l’italianese), a tutta quella gente che fa coppia fissa con chi dice “assolutamente”, e che si dimentica di precisare se è un “sì” o un “no”.
Lascio costoro ai loro piccoli destini, mentre voglio rendervi edotti/e su una parolaccia ben più pericolosa, anzi, per raccontarvi una storia.
Come andavate in Storia a scuola? Lasciate perdere, non ha importanza, tanto questa non la si trova sui libri scolastici, e forse non la conosce nemmeno l’insegnante, al quale comunque il programma vieterebbe di raccontare ciò che non è approvato dal Ministero della Verità Ufficiale.
Comunque avrete sentito parlare della nostra ridicola avventura coloniale.
Più volte quei “selvaggi” ce le hanno suonate, in altre occasioni invece abbiamo avuto partita vinta, talvolta grazie al sotterfugio e ad accordi sottobanco (regolarmente traditi).
Volendo cancellare l’onta della sconfitta del 1896 nella guerra d’Abissinia, il Duce volle, fortissimamente volle dare alla nazione un impero, e nel 1935 attaccò l’Etiopia. La disparità di mezzi non lasciava scampo alle truppe di Hailé Selassié, eppure, per riuscire ad avere ragione di loro, il generale Badoglio non esitò a usare i gas. Un anno dopo la guerra era conclusa, ovviamente con la vittoria delle truppe italiane, e Vittorio Emanuele III diventava Imperatore d’Etiopia.
Agli inizi di aprile del ’36, viene avvistata dall’aviazione fascista una carovana della resistenza etiope. Si tratta in realtà di poche decine di uomini malamente armati che scortano quasi un migliaio di civili, vecchi, donne e bambini. Sapendo ormai di essere stati scoperti, essi si rifugiano nelle grotte di Amba Aradam. Già qualche mese prima su quell’altopiano montuoso si era svolta una dura battaglia. L’esercito etiope l’aveva fortificato scavando trincee e gallerie, ma in modo piuttosto disorganizzato. Anche la battaglia per la conquista di quella fortezza naturale si svolse in modo caotico per entrambi gli schieramenti. Comunque Amba Aradam fu espugnata e l’esercito etiope fu sconfitto.
In aprile la situazione è totalmente diversa: l’armata abissina è in rotta, il negus sta scappando, la guerra è persa e rimangono sul campo solamente sparute formazioni della resistenza, come una di quelle intercettate dagli italiani nei pressi di Amba Aradam.
L’ordine di Mussolini è perentorio: “stroncare rapidamente”.
Il “plotone chimico” della divisione Granatieri di Savoia attacca le grotte col gas, con bombe a gas d’arsina e con l’iprite, un agente vescicante già utilizzato dai tedeschi nella prima guerra mondiale. Al mattino, chi non è morto a causa dei gas si arrende. Vengono fucilate 800 persone, in massima parte civili. Chi ancora resiste all’interno viene attaccato con i lanciafiamme, e per maggior sicurezza vengono fatte saltare in aria le imboccature delle grotte, seppellendo assieme i vivi e i morti.
Questa ingiustificata carneficina di civili, peggiore per ferocia di quelle perpetrate dalle SS tedesche, fu condotta con l’ausilio dei micidiali gas, quegli stessi per i quali l’Italia aveva firmato il bando nel corso delle Terza Convenzione di Ginevra del 1925.
Sono convinto che nulla di ciò appare nei testi scolastici, e se vado a cercare nel mio fidato Devoto – Oli, sotto la voce “Ambaradan” trovo: Confusione, baraonda. Organizzazione o impresa particolarmente complessa. Massiccio montuoso in Etiopia dove nel 1936 l’esercito italiano sconfisse le truppe abissine in una sanguinosa battaglia.
Direi a questo punto che la voce “Ambaradan” avrebbe urgente bisogno di un aggiornamento storico.
Voglio sottolineare però che non è questa imprecisione editoriale a farmela percepire come un’espressione inaccettabile, bensì l’uso spensierato che se ne fa.
Capita troppo spesso che paladini delle libertà civili, latori di verità scomode, difensori dell’eguaglianza e fustigatori dei razzisti, incappino spesso nell’errore (orrore) di considerare un termine degno perché usuale, innocuo perché popolare, simpatico perché suona bene in bocca, senza preoccuparsi troppo della loro drammatica etimologia e di ciò che essa comporta nel comune sentire.
Per la verità, non nutro molte speranze che questo macabro termine venga esiliato dalla neolingua che si sta imponendo a tutti i livelli della comunicazione. Ciò che mi auguro è che qualcuno di voi quattro gatti che seguite questo blog (miao, miao, miao, miao) diventi più sospettoso nei confronti di quanto è spacciato per buono solamente perché è moderno, e che magari cerchi di sopportare quei reiterati “vaffanculo”, per quanto irrituali e irriverenti possano suonare al vostro delicato orecchio, giacché i termini più pericolosi sono quelli apparentemente innocenti e acclamati, coscienza, dovere, merito, amore, patria, e tanti altri scudi (umani o linguistici) dietro ai quali troppo spesso si celano interessi inconfessabili e strategie crudeli.

Poiché la lingua è lo specchio del pensiero, indagare il preciso significato delle parole è mettere chiarezza nelle proprie idee.” – Aristide Gabelli, Pensieri, 1886

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6 risposte a "VAFFANCULO! Grazie, troppo buono."

  1. Accidenti se mi è piaciuto questo tuo pezzo, Stelio.
    Me lo sono gustato, tutto quanto. Grazie infinite per averlo segnalato. Ce ne vorrebbero di queste riflessioni e considerazioni. Ribadisco un mio pensiero: chi ci governa è un preciso “campione” dell’ignoranza e della superficialità che noi, poveri blogger, denunciamo. Non basterebbe una dittatura a sradicare questo “mal costume lessicale”, privo di ogni significato, ed i relativi luoghi comuni che genera scambiandoli per “conoscenza”.
    Grazie ancora.

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    • Chi ci governa non può essere altro che un campione di superficialità e ignoranza in quanto rappresentante democraticamente eletto da una larga base che in lui si riconosce.
      Mala tempora currunt.
      Grazie della stima 🙂

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