Ricordati che devi morire

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Praga, cimitero di Vyšehrad – Tomba di Bedřich Smetana

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Sì, è vero, dobbiamo morire, tutti, nessuno escluso.
Devo morire io che, invece di guardare la partita, sto scrivendo queste righe, devi morire tu che, invece di svagarti al centro commerciale, ti spendi a scrivere ciò che senti, e tu che, invece di sfogliare una rivista patinata, stai leggendo un testo non sponsorizzato, e tu che, invece di guardare la televisione, passi il tempo sulla rete, e tu che, invece di accontentarti della verità ufficiale, cerchi di catturarne un senso, e tu che, invece di vantare mille amicizie “social”, ti accontenti di poche ma buone. Tutti dobbiamo morire, questo è il progetto.
Un progetto?
Certo, un progetto, e noi per quei progettisti siamo d’intralcio, siamo inservibili, persino pericolosi, perciò dobbiamo sparire, dobbiamo morire.
La struttura del progetto si fonda sulla libertà di scelta, una totale, assoluta, imprescindibile libertà di scelta. Si potranno scegliere il canale, la squadra del cuore, il logo sulla polo, la suoneria dello smartphone, la marca di würstel, il tipo di gel, il colore del colluttorio, il nickname in rete, il simbolo da servire, la favola da imparare, e altre amenità simili.
Va da sé che non tutte le scelte saranno così leggere. Ci sarà offerta la libertà di scegliere se lavorare senza chiedere o se chiedere e perciò non lavorare, se accettare di far parte di una società produttiva, efficiente, competitiva o se rinunciare a vivere senza dignità e accettare di rintanarsi nell’indecenza, se piegarsi o se spezzarsi.
Il progetto è complesso nelle sue trame, è semplice nei suoi obiettivi, è spietato nella sua strategia: farci morire per ridurre la società a uno schema più semplice, con due soli blocchi sociali, i ricchi (pochi) e i poveri (tutti gli altri).
Del resto la matematica dà loro ragione, non ci sono risorse per sostenere la ricchezza di tutti, perciò questa deve essere protetta, custodita e fatta prosperare in un ambiente favorevole. Lo sanno tutti che i poveracci la ricchezza la sprecano, la usano male, con ignoranza, e perciò la ricchezza è giusto che risieda nelle mani di chi sa trattarla con il giusto riguardo e che non fa del denaro una prostituta ma una divinità.
Ma noi, mi chiederete, perché siamo stati messi in mezzo, perché non fanno i loro porci comodi e non ci lasciano in pace?
Beata ingenuità: perché non rientriamo nello schema.
Non siamo ricchi, e perciò siamo automaticamente esclusi da quel circolo elitario.
Non siamo destinati a diventare ricchi, perché chi è avido non perde tempo con altro che non sia il profitto.
Non siamo abbastanza poveri da essere ricattati, o da essere ridotti a pensare unicamente al quotidiano.
Non siamo asserviti al modello (in)culturale corrente, fatto di schieramenti e di luoghi comuni.
Non siamo privi di spirito di osservazione e di capacità speculativa.
Non siamo privi di memoria e di fantasia, e talvolta nemmeno di speranza.
Non siamo ancora abbastanza egoisti da considerare ogni “non me” un competitore, un avversario, un nemico, una nemesi.
Non siamo ancora immuni dal pericolo di pensare.
Per questo motivo noi dobbiamo morire, perché siamo la terra di nessuno dove tutto è possibile, nel bene e nel male, perché possediamo le risorse minime per dire “no”, e anche per rifiutare di scegliere, quest’ultima un’azione in grado di distruggere ogni sistema, anche il più ferreo.
La classe cosiddetta “media” deve rientrare nei ranghi, dev’essere decimata in modo che i pochi superstiti tremino all’eventualità di perdere l’accesso agli avanzi che cadono dalla tavolata dei ricchi, e perciò diventino i guardiani più occhiuti dello status quo.
Domani sarà tutto più semplice.
Sei ricco? Guarirai. Sei povero? Morirai.
Sei ricco? Studierai come diventare più ricco. Sei povero? Studierai come produrre di più.
Sei ricco? Mangerai cibi sani. Sei povero? Mangerai merda colorata e profumata.
Sei ricco? Vivrai. Sei povero? Sopravviverai (se il ricco acconsente).
Noi invece che badiamo alla prevenzione, che continuiamo a imparare, che non cediamo al canto delle sirene pubblicitarie, che tentiamo di provare gioia nella vita, noi verremo derisi come mentecatti, affamati come un popolo assediato, sterminati come insetti, e alla fine di noi non resterà nemmeno memoria, se non come una setta di esaltati, di nemici del progresso, di visionari in malafede, di corruttori del costume, di un ramo secco che la storia ha saggiamente ridotto in polvere e disperso nel vento.
Requiescat in pace. Amen.

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4 risposte a "Ricordati che devi morire"

  1. Vedendo quelle steli, Stelio, il pensiero mi è andato spontaneamente ai soldati sardi che il tg regionale sono due giorni che celebra, quelli morti in guerra – la prima mondiale ma ci sarebbe da discutere… – nell’altopiano vicentino (http://soldatiniestoria.blog.tiscali.it/2012/07/31/monte-zebio-dopo-piu-di-90-anni-i-soldati-sardi-tornano-a-casa/). Quelli dovevano morire. Gli affogati inghiottiti dal mare per fuggire dalle guerre e da quanto di più orribile c’è sulla terra: quelli, dovevano morire. E anche quelli che tagliano teste, seviziano, godono nel trovare ogni giorno una nuova crudeltà, devono morire, e quando toccherà a me, mi piacerebbe tanto a chieder loro quante vergini… Anche noi dobbiamo morire. E ce lo dovremmo ricordare tutti, ricchi e poveri, anche se i primi devono avere una falla nel cervello. Nel frattempo cerchiamo di vivere, ma sarà per poco, anche se fossero 120 anni. Scriviamo o leggiamo una poesia, suoniamo una musica o la ascoltiamo con trasporto, e magari a volte ci crediamo felici mentre qualcuno spara, ammazza, si ficca aghi nel braccio. E noi a far filosofia. Tanto ci tocca.

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    • Eh già, dovevano morire quei giovani sardi, dovevano morire solamente per concedere a Genova la possibilità di distruggere Trieste, il suo concorrente più temibile.
      Devono morire quei disperati, in mare, nel deserto, su un camion, in un lager, devono morire per far imputare la loro morte a qualcun altro e non alle loro miserrime condizioni di vita, condizioni che abbiamo creato noi, sfruttandoli, avvelenandoli, ingannandoli, e armando i loro avventurieri e i dittatori sanguinari.
      Devono morire anche quelle comparse di un teatro grondante di sangue, marionette i cui fili non sono tirati da un dio che non c’è ma da abili ragionieri del potere.
      E dobbiamo morire anche noi, perché i greci sono solamente l’antipasto per gli squali, e chi non lo capisce è un suicida.

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