Musica sacra – Terza puntata

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MadamaButterfly

Un sogno, era stato solamente un sogno che la sua mente emozionata aveva imbastito con i brandelli del suo grigio passato e alcune frasi dal vago sapore vagamente beffardo di quella lettera, uno scritto che mimetizzava tra le righe di compiacenza una specie di sfida.
– Maledetto Wieers – masticò Omero tra i denti. Già lo aveva fatto impazzire quand’era il suo capo, e anche adesso, pur essendo fuori dallo show, riusciva a rendergli la vita impossibile; ne sentiva la presenza ingombrante sopra ogni suo atto, ne era la misura di paragone, dappertutto, negli studi televisivi, a teatro, e ora anche a casa sua, fosse pure questa una camera d’albergo.
Si consolò pensando che, tutto sommato, si era trattato di un sogno, che la realtà si prospettava ben più rosea, e baloccandosi con questa idea rimase ancora un po’ a letto per ritrovare la lucidità che gli era necessaria per affrontare i prossimi impegni al meglio delle sue capacità. Un vero peccato per Omero che l’esperienza onirica sia l’equivalente del famoso fucile di Chekhov, l’arma che appare nel primo atto colla sottintesa promessa di uno sparo nel terzo, in questo caso un brutto sogno che preannuncia una realtà da incubo per la quale non c’è risveglio. Ma non precorriamo gli eventi.
La stanza era al buio ormai, la sera era già scesa da tempo, però a Omero non andava di scendere al ristorante dell’albergo per cenare, non aveva abbastanza appetito, oppure l’emozione glielo aveva fatto passare. Decise di scappare dalla sua confortevole cella di pino color miele tirato a lucido, anche se faceva abbastanza freddo fuori, sicuro che proprio l’aria pungente gli avrebbe schiarito un po’ le idee; perciò si fece una doccia, si rivestì con abiti consoni all’inverno viennese e uscì.
La città era chiassosa, piena di luci e di turisti, di carrozze e di vetrine, e presto se ne stancò. Prese la metropolitana e uscì in Stephansplatz, sorprendentemente più tranquilla di sera; vagò senza meta, passando davanti alla Mozarthaus, chiusa ma quasi bella in quel momento, libera dalla calca di visitatori vocianti e fotografanti, poi tornò indietro fino alla piccola chiesa di S. Pietro, quindi, per scampare dall’orribile vista di tutte quelle banche opulente di fuori e di dentro, si rifugiò da Hawelka, e lì aspettò con pazienza che arrivassero le dieci per gustarsi le focaccine dolci appena sfornate, per dimenticare, oltre all’angoscia provata qualche ora prima, anche le raccomandazioni che medici, amici e amici medici non si stancavano di suggerire. Alla sua età, con poca attività fisica e molto stress, ogni caloria era una mina vagante; Omero denunciava questa sua disattenzione salutistica con un’epa pronunciata e l’incarnato spento; sopra il corpo appesantito spuntava una testa a pera addobbata con pochi capelli grigi e contraddistinta da un volto del quale la parte più espressiva erano gli occhiali fotocromatici dalla montatura spessa.
Si stava ingozzando di buchteln quando udì qualcuno pronunciare chiaramente il suo nome: – Il Dottor Dossena suppongo.
Alzò lo sguardo verso la voce e ci mise qualche secondo per mettere a fuoco la vista e la memoria – Ah, lei dev’essere quel giornalista… Ferretti, giusto? -. Ferrini, si chiamava Ferrini, un trentenne di passate belle speranze, elegante nella figura e nell’abbigliamento, indubbiamente vanitoso, ma non un vero e proprio cronista, bensì quello che oggi viene definito un free lance, ovvero un giornalista senza giornale, un cacciatore di notizie da vendere al miglior offerente, sempre che ne trovi uno. Si erano conosciuti l’anno prima al Festival di Torino, dove avevano trovato modo di condividere le reciproche disillusioni e l’astio verso le regole mercantili che inquinavano la settima arte. Con l’impudenza tipica dei giornalisti Ferrini si sedette al suo tavolino senza chiedere permesso e ordinò un fiaker; chiaramente a caccia di pettegolezzi, non volle lasciarsi sfuggire l’occasione di fare quattro chiacchiere col regista del più importante spettacolo viennese.
– Sa Dottor Dossena, siamo rimasti tutti sorpresi quando abbiamo saputo che avevano offerto a lei la regia… ehm, volevo dire, piacevolmente sorpresi… cioè…
Pessimo incipit. Omero scivolò in una moderata depressione rendendosi conto che quell’imbrattacarte aveva fatto trapelare una triste verità, e anche se poi Ferrini aveva cercato di correggersi, trovò pertinente ciò che sempre sentenziava il notaio del quiz televisivo: è la prima risposta quella che conta. Quindi nessuno credeva alle sue capacità se lo consideravano una specie di outsider, un cavallo che ha vinto una corsa contro ogni pronostico; ritenne probabile che tutti stessero attendendo la conferma delle loro basse opinioni, uno spettacolo mediocre, una regia sciatta, con il conseguente discredito e il fallimento personale. D’altronde nemmeno Wieers lo teneva in grandissima considerazione, e ora cominciava a capire anche il motivo della costante presenza di quei funzionari della televisione, mai così tanti, mai così attenti a ogni sua mossa con malcelata apprensione.
– Voce dal sen fuggita poi richiamar non vale, eh Ferrini? Le mie quotazioni non devono essere molto alte quindi. Non fa niente, non fa niente, avrete modo di ricredervi, a tempo debito…
Il giornalista fu abbastanza saggio da tacere, e dopo un sorso del suo caffè prese un largo giro per cercare di scucire qualche informazione da Omero, col solito sistema, cercando di farlo parlare a ruota libera. Fatica sprecata. Omero non solamente glissava ma addirittura premeva lui sul Ferrini al fine di scoprire ciò che quel ficcanaso poteva aver scoperto dietro le quinte. Non era molto, almeno quello che Omero già non sapesse, ma rimase perplesso quando il giornalista gli fece l’unica domanda diretta della serata : – E dei soldi, che mi dice?
Non seppe che rispondere, il suo compenso era pubblico; di quali dannati soldi stava parlando? Ferrini divenne più cauto; gli disse che da qualche parte aveva sentito parlare di soldi, di un mucchio di soldi, ma non aveva capito a che titolo; magari sapendo di chi è fratello il regista si sarebbe potuto supporre che qualche bustarella fosse stata consegnata nelle mani di funzionari compiacenti. Il giornalista si affrettò a dichiarare la sua completa incredulità verso questa ipotesi, però mise egualmente sull’avviso Omero sul fatto che se la voce girava sarebbe stato impossibile impedire si mutasse in qualcosa di peggio. – Sa come fa quell’aria del Barbiere “La calunnia è un venticello, un’auretta assai gentile…”
Tacquero entrambi ascoltando la cacofonia di voci attorno a loro; magari qualcuno li stava osservando e già mormorava di corruzione, malaffare, raccomandazioni. Omero cominciò a sentirsi inquieto; nulla era cambiato, l’ambiente, le persone, i profumi erano gli stessi di qualche ora prima, ma adesso tutto appariva diverso, più fosco, quasi soffocante come un pomeriggio invernale troppo caldo.
Era ora di tornare in albergo, l’indomani sarebbe stata una lunga giornata; pagò le sue consumazioni e salutò con fredda cortesia il giornalista evitando a bella posta di farsi carico anche del suo fiaker. Uscì nella via e si incamminò verso la stazione della metropolitana interrogandosi sulla strana faccenda dei soldi. Chissà perché poi era saltata fuori; dopo quel sogno burrascoso aveva quasi ritrovata la pace, e adesso un tanghero gli aveva rovinato la serata. Non seppe trattenersi.
– Soldi, sempre questi dannatissimi soldi di mezzo, ci piscio sopra ai soldi io!

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6 risposte a "Musica sacra – Terza puntata"

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